
“I social sono pericolosi” è un mantra che chiunque, in questo periodo ha detto o sentito dire centinaia di volte. Lo sappiamo tutti, è ormai di dominio pubblico, ma certe vicende riportano in superficie un problema che stentiamo ancora a conoscere a fondo e a cui facciamo fatica porre dei veri correttivi.
Così la vicenda del bambino di 11 anni di Napoli che si getta dal balcone per “paura dell’uomo col cappuccio” ha questo impatto: ci sbatte in viso la drammaticità raggiungibile da un uso inconsapevole dei social.
ATTENZIONE: le indagini sono ancora in corso e dovremo seguirle con attenzione per comprendere i contorni della vicenda, perché come sappiamo le onde di “challenge dell’orrore” come la Blue Whale o adesso la “Jonathan Galindo” siano spesso fake news. O meglio, non esistono circostanze che possano collegare questi casi direttamente a sfide estreme lanciate da psicopatici criminali. Questo però deve farci riflettere ugualmente: probabilmente non esiste nessuna persona fisica dietro queste vicende, è il clima generale dei social a colpire gli adolescenti più fragili emotivamente portandoli anche a gesti estremi come questo.
Fuor di ipocrisia, se si vuole ragionare in maniera seria e precisa dell’argomento bisogna partire da una consapevolezza che pervade, chi più chi meno, ognuno di noi: i social sono un miracolo.
La maggior parte di noi non può più immaginarsi la vita senza i nostri profili virtuali: alcuni di noi li utilizzano per passatempo, alcuni ci lavorano, altri semplicemente li utilizzano per mantenere i rapporti sociali o quanto meno una parvenza di essi. Provate a guardare la prima stagione della serie televisiva “Black Mirror” (il titolo si riferisce allo schermo nero di ogni televisore, monitor o smartphone) per esempio e capirete quali rischi corriamo in un potenziale futuro distopico (rappresentazione di una realtà immaginaria ma prevedibile sulla base di tendenze del presente percepite come altamente negative, in cui viene presagita un’esperienza di vita indesiderabile o spaventosa).
Proprio per questo intrinseco valore strabiliante dei social dobbiamo però riconoscere che creino un’assuefazione in persone adulte, completamente formate, stabili emotivamente e mediamente serene.
Cosa sta succedendo, però, in questo momento in cui gli “users” delle piattaforme sono diventati adolescenti o bambini in età scolare? Come può un ragazzo di 11 anni avere gli strumenti emotivi e mentali per affrontare razionalmente le insidie che si nascondono dietro ad ogni profilo, articolo, tag o challenge?
Partiamo da un dato: la maggior parte di noi ha un pieno ricordo della propria vita pre-social. Abbiamo iniziato ad utilizzare questi strumenti in età adulta o comunque a ciclo di studi quasi terminato e abbiamo adattato le nostre vite ad una nuova tipologia di comunicazione. I nati dal 1996 in poi, invece, si sono trovati iscritti a Facebook durante le scuole medie: un periodo già difficile in generale, in cui i complessi fisici, comportamentali e mentali sono stati esponenzialmente accresciuti dal costante confronto con coetanei di tutto il mondo, nella veste di “vite di plastica” che i social confezionano ad arte.
Possiamo fermare al 2009 la data in cui l’uso dei social sia diventato comune negli adolescenti e pre adolescenti: diversi studi hanno cercato di quantificare i danni prodotti dall’uso di ragazze e ragazzi sani e mediamente ben inseriti in contesti sociali tutelanti, ma senza adeguati strumenti conoscitivi per reagire alle dinamiche online. Riportiamo qualche dato, tratto dal docufilm “The social dilemma” di cui caldeggiamo fortemente la visione per tutti coloro che vogliono capire a fondo le dinamiche e i rischi dei social.
Negli Stati Uniti, dal 2009 il numero di ragazze che si sono fatte del male per cause connesse al malessere psicologico è aumentata del +62% nella fascia di età 15-19, e del +189% nella fascia 10-14. Il triplo.
Il dato si fa ancora più drammatico quando si parla di suicidio: nella fascia 15-19 sono aumentati del 70%, nella fascia 10-14 del 151%.
Raccapricciante.
In Italia non abbiamo ancora dati così accurati, perché il fenomeno è sottostimato, ma non possiamo pensare che il problema non esista o sia di poco conto. Bisogna agire, ora. Perché il problema reale non sono solo queste “Challenge” che esplodono ciclicamente e che si risolvono nella maggior parte dei casi in tendenze che passano di moda o bolle di sapone di mitomani con macabro senso dell’umorismo. Il problema è che bisogna conoscerla a fondo l’industria globale dei social network per poter fornire delle armi di autodifesa a coloro che per età, problematiche sociali o fragilità non riescono a filtrare gli stimoli con cui sono bombardati ogni giorno e che a volte tutto questo produce drammi personali e famigliari.
In questa battaglia ad armi assolutamente impari, gli unici argini tra i nostri ragazzi e il mondo virtuali siamo noi genitori: sappiamo bene che proibire l’utilizzo del telefono ai nostri figli fino alle scuole superiori si diventato pressoché impossibile, ma ci sono delle semplici accortezze che possiamo costruire nel corso del tempo. Prima tra tutte, come sempre, è l’esempio: dobbiamo renderci conto per prima cosa di quanto tempo noi passiamo inutilmente sui Social, della nostra dipendenza, cercando di forzarci a non utilizzarli se non strettamente indispensabile. Poi, un confronto costante e un continuo aggiornamento sulle nuove piattaforme, sulle tendenze, sui giochi: bisogna conoscere cosa stiamo affrontando. Come sempre la soluzione migliore non sembra essere la repressione, ma la condivisione e un comune sforzo a cercare mezzi alternativi per passare il tempo o mantenere i rapporti personali.
Il compito di ogni genitore e di ogni istituzione sia quello di prendere coscienza della dimensione del problema e mettere in atto tutto il necessario per rallentare una deriva che, troppo spesso, rischia di sembrare totalmente fuori dal nostro controllo.