L’Italia alla prova della Gig economy: nuovi lavori, nuove necessità
Nell’oceano del malessere provocato da una pandemia che continua a mietere vittime, provocando strascichi e rallentamenti necessari ma complessi da affrontare per una grande fetta del mondo produttivo del nostro paese, ogni tanto un lume di speranza si accende.
E’ questo il caso del “modello Italia”, indicato dal Financial times come esempio per le misure messe in campo per cercare di normare il mondo complesso e in continua evoluzione delle nuove professioni della Gig Economy: parliamo di rider, fattorini, autisti che lavorano per le piattaforme digitali che stanno monopolizzando i consumi e i servizi.
Il progresso non può e non dev’essere demonizzato a priori, una seria analisi della questione non può che rilevare che la crescita esponenziale del fatturato di queste aziende sia la naturale conseguenza di un cambiamento nelle abitudini di spesa di ognuno di noi. In questo periodo di restrizioni la crescita è stata esponenziale e si può supporre che alcune abitudini saranno conservate anche una volta rientrati nella “normalità”, basti pensare al food delivery, la consegna a domicilio del cibo. Abitudine, tra l’altro, già in costante crescita negli anni precedenti alla pandemia.
Se non bisogna demonizzare questo mondo, è sicuramente necessario conoscerlo e normarlo. Perché negli ultimi anni, ad un incremento esponenziale degli introiti non sono seguiti conseguenti aumenti nella qualità lavorativa degli impiegati dell’indotto. Le maggiori problematiche sono correlate al fatto che i lavoratori, per evidenti questioni di risparmio economico, vengano considerati autonomi e non dipendenti seppur ne integrino tutti i presupposti. Questo significa nessuna tutela, nessun trattamento pensionistico, nessun avanzamento di carriera. Queste professioni vengono tutt’ora considerate, dalla maggior parte dei datori di lavoro e da una parte dell’opinione pubblica, come lavoretti saltuari utili ad “arrotondare” uno stipendio. Eppure la realtà è molto più complessa di così, essendo sempre più corposa la moltitudine per cui queste professioni rappresentano l’unica fonte di reddito, con orari di lavoro anche oltre il limite di un impegno a tempo pieno “tradizionale”.
In Europa e al di fuori qualcosa si sta muovendo: in Spagna ad aprile il Governo ha annunciato, dopo una sentenza del tribunale nazionale, di voler emanare un decreto per conferire lo status di dipendente ai lavoratori delle consegne. In Gran Bretagna una simile pronuncia della Suprema Corte ha portato Uber a considerare lavoratori dipendenti 70mila autisti, a cui verrà riconosciuto il diritto al salario minimo e il trattamento pensionistico.
L’Italia è presa a modello per l’impegno su più fronti che si sta cercando di mettere in campo: pensiamo, prima di tutto, alla Legge sul Caporalato che ha nei fatti sottratto una parte di economia del paese a questo dramma sociale, al protocollo anti-caporalato promosso dal Ministro del Lavoro Andrea Orlando con sindacati e Assodelivery, le nuove assunzioni con contratti maggiormente tutelanti di Just Eat, l’incontro calendarizzato a breve con Amazon per i lavoratori dell’indotto.
Non è una necessità monolitica quella di avere un contratto stabile, ne siamo consapevoli, soprattutto in un mondo del lavoro che travolge e si stravolge da un momento all’altro. Siamo ben consci che ci sono tante persone che ad un contratto più tutelante ma meno redditizio preferiscono un contratto più flessibile.
E’ proprio questa però la battaglia di civiltà che dobbiamo portare avanti, convintamente, come Partito Democratico: chiamare le cose con il proprio nome e offrire una scelta. Questo significa che se un’azienda vuole avere un dipendente deve offrirgli la possibilità di essere inquadrato contrattualmente in questo modo, non possiamo più tollerare de-mansionamenti fittizi utili solo ad aumentare il margine di profitto delle piattaforme. A quel punto, il lavoratore avrà la possibilità di scegliere quale tipologia preferirà, ma partendo dal presupposto che un lavoro di qualità, che realizzi veramente ogni dipendente, è un limite che non possiamo più permettere venga superato.